Che comunque tutto resta
di Tonia Peluso
Con Ghosting ci riferiamo al comportamento di chi decide di interrompere bruscamente una relazione sentimentale e di scomparire dalla vita del partner, rendendosi irreperibile. Chiamiamo Ghosting la finissima arte del dileguarsi: una persona con cui hai avuto un legame particolare – d’amore o d’amicizia che sia - a un certo punto sparisce, fa perdere le tracce, non risponde alle chiamate, praticamente si smaterializza mettendo fine così a tutto ciò che è stato e facendo svanire l’idea di ciò che avrebbe potuto essere.
È un fenomeno che ha assunto una portata sempre più significativa in una società, come la nostra, in cui le relazioni a volte nascono, e quasi sempre si sviluppano, avvalendosi anche dell’uso dei social. Eppure, è un comportamento che ha radici antiche come il mondo: i racconti popolari spesso si popolano di personaggi che a un certo punto hanno fatto perdere le proprie tracce per ricominciare altrove una nuova vita, annullando quello che fino a quel momento avevano vissuto, costruendo famiglie inedite e apparentemente migliori delle precedenti, diventando una sorta di upgrade di sé stessi.
Chi ghosta sta di fatto interrompendo una relazione per provare a rinascere, sacrificando la fedeltà a sé stesso e agli altri alla necessità di cambiare quel segmento di vita, possibilmente senza assumersene la responsabilità in maniera diretta. La rottura della relazione avviene, infatti, attraverso una non-comunicazione, che dovrebbe, nelle intenzioni di chi si accinge a sparire, rappresentare l’unica modalità possibile per tutelare sé stesso e l’altro. Come se con l’atto stesso di sparire si potesse compiere la magia di veder dissolto anche il carico di dolore necessario a rielaborare la fine di un rapporto. Sparisco perché ne soffriremmo troppo. In realtà l’interruzione improvvisa e ingiustificata di una qualsiasi relazione lastrica la strada a un’elaborazione lunga e problematica che porta infine a una spiegazione ben chiara: chi sparisce trova nel silenzio un buon modo per evitare i conflitti e le responsabilità delle proprie scelte. Chi sparisce si tutela, ignorando tutto il resto. Compie un atto così tanto individualista da non considerare neanche le possibili conseguenze sulle vite altrui. Chi sparisce è un egoista? Può esserlo, se alla base di quella decisione vi è un individuo irrisolto o che pur di primeggiare è disposto a danneggiare volutamente la sensibilità altrui. Se però provo a ribaltare il senso delle cose come siamo abituati a doverle immaginare, io vedo nel gesto di sparire l’affermazione della propria libertà portata all’estrema conseguenza. Chi sparisce è un individualista. Non si sente uno schiavo, ma un dio. La negazione di ogni legame rappresenta per lui un mezzo per la realizzazione di sé. Chi se ne va, senza neanche avvisare, si dichiara capace di sottrarsi alle logiche e ai condizionamenti sociali che invece reputano vile tale comportamento. Chi sparisce lo sa bene che da quel momento sarà considerato il vigliacco, il perdente, il meschino, il senzapalle - per usare un termine più immediato senza tirarla per le lunghe in questa carrellata di sinonimi volti a definire il campo semantico del disprezzo – per una cerchia più o meno ampia di persone. Eppure, decide di sparire lo stesso, lo mette in conto e, fregandosene delle conseguenze che tale gesto comporta, si sottrae alla logica del giudizio sulle sue decisioni e, per esteso, sulla sua persona. Chi se ne va è un eroe dell’imperturbabilità o semplicemente un cazzaro, il confine può essere molto labile.
La verità è che chi sparisce, al netto delle motivazioni per cui lo fa, lascia un vuoto in cui si insinuano le distorsioni. Sensi di colpa, recriminazioni, preoccupazioni, rabbia si alternano nella persona abbandonata. Così, mentre i fuggitivi trovano riparo all’ombra delle giustificazioni che hanno pensato fosse corretto fornire solo a loro stessi, chi resta invece deve fare i conti con la realtà e molto spesso con lo stigma che ne deriva. Chi resta deve rielaborare l’abbandono e fornire agli altri giustificazioni che non possiede. È costretto perciò a trovarne creando connessioni, mettendo insieme i pezzi che restano e analizzando a ritroso tutto ciò che è stato, nel tentativo vano di trovare una falla, di individuare il momento esatto in cui tutto deve aver iniziato a scricchiolare, senza che se ne rendesse conto. Chi resta – solo, suo malgrado – pare logorarsi a poco a poco sotto il peso di risposte che non è capace di mettere insieme, si fa in pezzetti sempre più piccoli, fino a ritrovarsi particella piccolissima di materia. Chi resta destruttura ciò che è stato, si interroga, indaga. Cerca di capire. E non capisce. Chi resta si consuma. Poi però riparte. Si ricompone. Da particella piccolissima torna a essere persona, più forte, più consapevole. Certo ci vuole tempo. Un tempo variabile, che a volte si estende troppo e rischia di lasciare chi resta un essere indefinito per sempre. Non tutte le storie sono a lieto fine.
Chi sparisce ci spoglia e ci mette davanti a una delle paure più comuni nell’essere umano: quella dell’abbandono. L’ansia da separazione si presenta presto nella vita di una persona. Ci basta andare indietro nella memoria per recuperare l’immagine di angoscia che abbiamo provato il primo giorno di asilo. Mamma, papà, perché mi fate questo? Perché mi lasciate qui? Perché non mi volete più con voi? Staccarsi, anche temporaneamente, da chi si ama e a cui abbiamo affidato il compito di proteggerci è un dolore che a volte sembra insormontabile e con il quale più volte dobbiamo confrontarci nel corso della nostra vita. Mi viene da pensare alla fine dell’estate da adolescenti, quando salutare gli amici conosciuti da solo qualche settimana o quell’amore che sapeva di salsedine, ma non avrebbe mai visto il pallore dell’inverno, ci è sembrata la cosa più difficile che potessimo fare. Poi sono arrivati l’Erasmus, le trasferte di lavoro, il divorzio, il lutto, quelli che spariscono perché forse sono vili o forse eroi nella costruzione della propria libertà. Anche in questo poi ognuno si dà la risposta che lo fa star meglio.
Io, per esempio, non ce l’ho con chi sparisce. Provo a impuntarmi, ma proprio non mi riesce a fare rabbia. Mi dispiaccio, questo sì. Mi pare che chi sparisce stia in qualche modo sminuendo la mia capacità di comprensione e, al tempo stesso, si stia rivestendo di un’importanza maggiore a quella che io gli ho accordato. Pensandoci, se avessi avanti chi è sparito, gli direi ma che bisogno c’era di fare tutto questo. Amico mio hai fatto proprio tutta sta manfrina a vuoto, che con me fidati mica serviva. Io sono una pragmatica, a volte impulsiva lo ammetto, però a modo mio risolvo. Con un sarcasmo che sa essere tagliente o con un gesto di tenerezza, ma risolvo. Sarà che ho imparato negli anni a chiedermi spesso quale sia la posizione che assumiamo nelle relazioni con gli altri. Ragionavo proprio in questi giorni su quanto a volte il ruolo che attribuiamo alle persone nella nostra vita sia in realtà la rappresentazione di cosa ci manca e spesso cosa vorremmo che quella persona fosse. Così gli cuciamo addosso un vestito di aspettative presenti e future e ci portiamo dietro per la strada i brandelli di stoffa che restano, come coperte di Linus a cui affidiamo il gravoso compito di proteggerci dalle nostre paure. Le persone però non sono la perfetta proiezione che ne abbiamo fatto. Sono persone. Sono solo persone che a volte trascinano per la strada altrettanti brandelli di stoffa come a voler coprire le proprie malinconie. Poi un giorno trovano il coraggio di andare, si allacciano le scarpe e ripartono da zero. Spariscono. L’impatto con la realtà è devastante. Spoglia noi stessi e gli altri. Una volta nude scopriamo che queste persone non erano quello che avevamo immaginato quando ancora c’erano. Non ci piacciono più, o magari ancora di più. Però con la consapevolezza che non erano quella cosa lì, non erano quella storia lì. Hanno deciso, d’altronde, di non essere neanche una nuova storia. Se ne sono andate. Viene, in queste circostanze, su l’idea che fosse tutto finto. I vestiti, però, si imbastiscono dopo aver preso le misure, considerato la stagione, tenuto conto delle circostanze. Non sempre è tutto finto, a volte è solo legato a un momento e tale resterà. Chi sparisce mi fa dispiacere, dicevo, perché mi fa venire su l’idea che fosse tutto finto. E invece non lo era. Era legato a un momento che resterà tale, immutato, eterno.
Chi sparisce alla fine, se ci penso bene, cristallizza ciò che è stato. Si porta via i suoi quattro stracci e lascia nell’armadio dei ricordi un abito che abbiamo tanto amato, ma che non indosseremo più.
Chi sparisce si avvale del diritto di sentirsi bene, a una certa ora, un’altra persona. Chi sparisce abbandona il suo paese di sconosciuti, impara un’altra lingua e apre le danze. Chi sparisce corre il rischio di ferire gli altri, ma di questo pare non preoccuparsi. Chi sparisce ha il coraggio di essere brutto, che a essere belli e bravi siamo bravi tutti.
Ho chiuso citando una delle mie canzoni preferite, ne sono gelosa. Fatene buon uso.
Dubbi alla terza singolare
Dare un nome ai fenomeni non significa necessariamente porre in evidenza un problema che affligge l’umanità. Tutto è di competenza della psicologia perché tutto ha a che fare con l’umano e le sue relazioni, con l’ambiente e i suoi simili. La psicologia si occupa anche di provare a definire le reazioni più comuni a specifiche circostanze, comportamenti, eventi. Definizioni, quelle risultanti, in cui può essere utile ritrovarsi, ma nelle quali non è mai utile cercare di entrare a tutti i costi.
Normalizzare, come scrivo e dico spesso, non significa etichettare né etichettarsi, stigmatizzare.
Il fenomeno del ghosting è stato scarsamente indagato in letteratura, nonostante gli effetti di tali comportamenti subiti siano talvolta motivo di sofferenza psicologica. Quello che sappiamo è che, la sparizione, avrebbe soprattutto a che fare con il cosiddetto digital flirting più che con relazioni consolidate, per le quali si sono raggiunti buoni livelli di conoscenza e confidenza, se si considera soprattutto il darsi alla macchia come atto finale di uno scambio relazionale. C’è ancora confusione sulla possibilità di parlare di ghosting anche in riferimento a relazioni non sentimentali.
I comportamenti altrui suscitano in noi delle reazioni e viceversa. Salvo rari casi, non potendo generalizzare, è possibile ipotizzare sia difficile incontrare qualcuno felice di ricevere un rifiuto, con o senza motivazioni espresse.
Al campeggio di Torre Flavia vigeva una regola: l’ultimo giorno d’estate salutavi il partner di mille e un falò in spiaggia per rivederlo un anno dopo, accettando sommessamente di non sentirlo e assumendo il rischio di vederlo arrivare con la sua nuova fidanzata l’anno dopo. La bella notizia? Assumendo il rischio assumevi anche la speranza di essere tu quella che, un anno dopo, sarebbe arrivata con l’amore della sua vita.
Mi spiace essere arrivata a quell’età in cui posso parlare di qualcosa che alcuni lettori non conoscono, ma alcuni studi hanno dimostrato che, sebbene l’uso della tecnologia rappresenti oggi il mezzo attraverso il quale comunemente si attuano comportamenti di ghosting, questa sembrerebbe aver solo aumentato la probabilità di mettere in atto simili strategie di evitamento, specialmente tra i giovani adulti (Meenagh, 2015).
Il comportamento di una persona che smette di scrivere e/o rispondere può suscitare vissuti d’ansia, di tristezza, confusione, ma anche di colpa, se la tendenza è quella a un locus of control rivolto verso l’interno quindi a ricercare nei nostri comportamenti la causa di ciò che ci succede.
La necessità di evitare il confronto parla invece di chi ce l’ha, più che di chi la subisce, così come l’incapacità di definire onestamente i propri sentimenti e/o le proprie intenzioni.
La pragmatica della comunicazione umana ci insegna che non si può non comunicare. Non comunicare è una comunicazione, ma non è quella che vorremmo, soprattutto perché è quella che non prevede uno scambio in cui noi possiamo liberamente esprimerci sentendoci protagonisti attivi. Questo ci frustra, nel migliore dei casi e ci porta a metterci in discussione, nel peggiore.
Ricordiamo che possiamo scegliere. Anche se qualcuno smettesse di risponderci, potremmo scegliere di insistere (nei limiti della legalità), di smettere di aspettare quella risposta, decidere che una persona che si comporta così non è una persona con la quale ci interessa condividere la nostra vita. Possiamo essere, nonostante tutto, protagonisti attivi delle relazioni che viviamo.
Le relazioni sono un campo minato in cui ogni mina è un dubbio alla terza persona singolare: un chissà se scriverà, chissà se durerà, chissà se mi tradirà. L’importante è che i dubbi siano espressi soprattutto alla terza persona singolare.
Auspichiamo gli spunti proposti, ispirati dall’intreccio tra le nostre vite e gli ambiti nei quali operiamo ogni giorno, possano essere un’occasione di confronto e arricchimento.