Tra il ruolo e l’uomo
di Tonia Peluso
Bentrovati.
Abbiamo rimandato di una settimana l’uscita di Viva perché sono successe un po’ di cose che succedono mentre si vive. Ci siamo chieste se ci fosse un modo per mettere in pausa, seppur brevemente, la vita che rompe gli argini. Poi abbiamo scelto di rimandare Viva, non in quanto parte sacrificabile, ma perché questo è per noi due uno spazio di libertà, mai di costrizione. Speriamo, a dire il vero, di esservi un po’ mancate. A noi è mancato scrivervi, ma eccoci ancora qua.
Oggi parliamo di ruoli. Essere di ruolo / Avere un ruolo / Questo è il mio ruolo sono frasi che abbiamo sentito e pronunciato un numero imprecisato di volte. Il ruolo sembra essere un concetto ancora molto pregnante nella nostra società, anche se ha perso, forse, la facciata di sacralità e staticità che una volta gli erano proprie. Ma cosa intendiamo quando parliamo di ruolo? Nel linguaggio amministrativo il ruolo è un prospetto in cui sono registrati i nomi e le funzioni delle persone che fanno parte di un ente o di una struttura. A teatro il ruolo è la parte che un attore interpreta in un'opera. Nello sport il ruolo va invece a identificare il compito che un giocatore esplica in campo all'interno di una squadra.
Funzioni delle persone, parte che si interpreta, compito che ci si assume. Messa così il ruolo pare andare a configurare una serie di comportamenti attesi e standardizzati che le persone debbano necessariamente mettere in atto in determinate circostanze, per ben aderire a quel ruolo. La sociologia ci chiarisce le idee. Il ruolo definisce l'insieme dei modelli di comportamento attesi, degli obblighi e delle aspettative che convergono su un individuo che ricopre una determinata posizione sociale. Questo vale per ciascun individuo, in qualsiasi posizione sociale.
Ogni società si basa su delle norme volte a definire il comportamento di ciascuno in base ai ruoli. Nella nostra quotidianità replichiamo una serie infinita di azioni, senza neanche più chiederci di volta in volta cosa stiamo facendo. Sono comportamenti interiorizzati e normalizzati, inerenti al ruolo che abbiamo – o supponiamo di avere – in quell’interazione specifica. Alterniamo, nell’arco di una giornata, formalità e informalità, vicinanza e distacco. Entriamo e usciamo da personaggi che abbiamo costruito nel tempo e con la convinzione che quel modello determinato sia il migliore al momento possibile, certo perfezionabile, ma sicuramente concorde a ciò che l’altro si aspetta da noi. Viviamo con la speranza di compiacere la nostra platea, fosse anche di estranei, e la paura di essere sanzionati dagli altri, soprattutto quelli per noi significativi. È un meccanismo che ci riguarda tutti, chi ne è consapevole e chi meno. Ci siamo formati in una società che ha usato i ruoli come strumento di controllo sociale e ha etichettato ogni singola divergenza dalle aspettative connesse al ruolo come devianza.
È sbagliato tutto questo? No, anzi è necessario al funzionamento della società stessa. Provate a immaginare di svegliarvi una mattina e non poter più far affidamento su tutto l’insieme di diritti, doveri, aspettative, norme e comportamenti che per abitudine attribuiamo ai vari contesti in cui interagiamo. Pensate di entrare in un bar, andare dietro al bancone e farvi da soli il caffè, che è l’esempio più banale che mi viene ora in mente, eppure spero renda l’idea. La società ha bisogno di ruoli per regolare la socialità e le sue molteplici sfaccettature. Noi abbiamo bisogno di ruoli per muoverci nell’incertezza delle infinite scelte possibili.
Il problema nasce quando l’adesione totale a un ruolo mette a tacere l’individualità di ciascuno. Nascono così le infelicità. Nascono proprio così, a dire il vero, anche i totalitarismi. Se interpretare un ruolo ci spinge a trascurare l’interiorità e sputare sull’umanità siamo oltre il condizionamento sociale lecito e rassicurante, ci troviamo in una dimensione di spersonalizzazione che non è mai foriera di prosperità per il singolo né per il contesto sociale. Mediare tra le nostre passioni più intime e le aspettative sociali legate al contesto in cui viviamo è sano. Ci spinge alla riflessione costante e alla valutazione di dove porre il limite da non oltrepassare di volta in volta, che poi è la base per vivere insieme. Ma come Harper Lee ne Il buio oltre la siepe scrive:
«Prima di vivere con gli altri, bisogna che viva con me stesso: la coscienza è l'unica cosa che non debba conformarsi al volere della maggioranza.»
Non è sbagliato aderire ai ruoli, è solo pericoloso fondersi con essi. Non siamo il lavoro che facciamo, i figli che abbiamo, i centimetri di girovita che speriamo di vedere andar via. Non siamo le aspettative sociali sul lavoro che non facciamo, sui figli che non abbiamo e su quei centimetri maledetti sul girovita che non vogliono proprio saperne di andare via.
Siamo persone. Siamo universi non replicabili, parzialmente comprensibili. Non siamo maggioranza, non siamo minoranza. Siamo unicità. Siamo chi crediamo di essere, fino a che un giorno non ci accorgiamo – come maschere pirandelliane - che il nostro naso pende verso destra. E che non era colpa dei chili di troppo, della società che ci vuole ingabbiare e dei social che vogliono darci una finta libertà. Siamo chi siamo fino a che non reggono più le scuse e allora capiamo di essere nudi, plasmabili, in constante evoluzione.
Siamo i ruoli a cui decidiamo di aderire, per poi arrivare a capire che sarebbe bello anche essere un po’ come Tommaso. Ma di questo ve ne parla Arianna.
La vita secondo Tommaso
di Arianna Capulli
Tommaso non conosce ruoli, se per ruolo intendiamo, come molti hanno risposto, sollecitati sul mio profilo Instagram, «La responsabilità che t’assumi o che ti danno di comportarti in un certo modo in base a chi hai davanti». Per lui esistono le persone che a un certo punto possono non esistere più, almeno su questa terra e, in quel caso, ci tiene che non vengano più nominate, probabilmente, ipotizzo, perché non è qualcosa su cui si può creare confusione.
È il fratello del primo amore di mio fratello. Siamo stati e siamo una famiglia, nonostante quella storia sia finita. Come sempre, quando una storia finisce e quando nuove persone entrano a far parte del sistema la questione dei ruoli ci preoccupa, ci attiva, ci spaventa, ci fa arrabbiare. Accade perché siamo ancorati a quello che riteniamo si debba fare quando una storia inizia, quando finisce, quando qualcosa succede o non succede.
Quando i miei genitori stavano divorziando e ambo i lati non si poteva, secondo noi, nominare la controparte, lui andava da uno a chiedere come stesse l’altra e dell’altra a chiedere dove fosse l’uno. Un gran lavoro di mediazione che nessuno di noi riusciva a fare, ma lui sì.
Tommaso, al funerale di mio nonno, che ha definito «una situazione davvero spiacevole», ha baciato la mano alla compagna (accogliente e divertita) di mio fratello, dicendole candidamente e col sorriso che le avrebbe salutato sua sorella, l’ex di mio fratello.
Abbiamo sempre immaginato una sceneggiatura scritta da lui, che ci avrebbe messi a tavola tutti insieme, a sorpresa, invitandoci a viverci anziché a rimanere fermi sui nostri conflitti, dissapori, fraintendimenti.
La sceneggiatura l’ha scritta la vita, creando un’occasione, estremamente spiacevole, per stare di nuovo tutti insieme, oltre i ruoli. È stato così bello, ma, al contempo, malinconico. La malinconia del constatare quante sovrastrutture creiamo, quante ce ne raccontiamo, di quanto ci priviamo in funzione di un ruolo che quello è e non può non essere.
Abbiamo un’idea poco flessibile di «relazione e del suo contorno», che indubbiamente strutturiamo per difenderci. Da cosa? Dalla forte gelosia che ci spinge a blindare più che a lasciar liberi di tornare, dalla paura di non essere all’altezza, di non riuscire a eguagliare quel ruolo che era stato di qualcun altro, come se questo non dipendesse da chi lo indossa, quell’abito.
Ho risentito di recente, dopo dieci anni, una persona per me importante, in occasione di un funerale. Se avessimo vissuto la vita secondo Tommaso questo non sarebbe accaduto, avremmo continuato a sentirci, magari, anche occasionalmente, o quantomeno a salutarci quando ci incontravamo in mezzo alla strada.
La rigidità dei ruoli e delle responsabilità correlate incide anche sulle aspettative che costruiamo, soprattutto in relazione a quello che ci aspettiamo (talvolta pretendiamo) gli altri facciano.
Dopo sei anni di relazione (il mio primo fidanzamento), ai tempi, conobbi un altro ragazzo, che tormentai (se mi leggi - mi dispiace) per due lunghi anni perché non si comportava come io ormai pensavo dovesse comportarsi un fidanzato. Ripensandoci, è possibile vedessi più spesso il ruolo di fidanzato anziché la persona. Mi tradì, facendomi come tornare coi piedi per terra, nel campo delle infinite possibilità più che in quello di come io credevo le cose dovessero necessariamente andare.
«Non mi deve tradire» o, sentite come suona meglio, «preferirei non mi tradisse»? La doverizzazione, che sia applicata a noi o agli altri, chiama in causa il controllo e il controllo toglie libertà soprattutto (e paradossalmente) a chi lo esercita.
I ruoli, nella nostra società, regolano la comunicazione, i rapporti familiari, nel privato e in ambito professionale. Viviamo in relazione, in un sistema in cui non tutti sono invitati e/o chiamati a comportarsi allo stesso modo e questo determina l’assunzione di ruolo. Uno psicoterapeuta non può, secondo il Codice Deontologico, assumere coi pazienti un altro ruolo che non sia quello per il quale viene pagato perché questo inficerebbe il trattamento.
Una necessaria forma di tutela, in questo caso, ma lo sbandieramento del proprio ruolo è sempre una forma di tutela? Pensiamo alle famiglie: quelli del padre autoritario e della madre casalinga, ruoli costruiti in passato proprio in base alle richieste della società, sono una forma di tutela per quel sistema?
Ancora una volta quello che ci incastra non è il ruolo, ma la rigidità del ruolo. Va bene stabilire che ci sono dei confini specifici, che qualcuno può oltrepassare (perché da noi invitato e perché ha un ruolo che glielo consente) e qualcun altro invece no, ma se qualcun altro un giorno dovesse assumere quel ruolo che gli consente di entrare a cercare calore in quel confine da noi posto e se questo fosse un nostro desiderio, perché privarcene entrambi in nome del ruolo precedentemente assunto? Uno scioglilingua, sì, come tutto ciò che potrebbe invece scorrere più fluidamente, se solo non fossimo condizionati dai nostri rigidi schemi.
I ruoli esistono. Tommaso a volte mi considera «sua sorella» e a me si riempie il cuore di gioia, ma la verità è che non lo sono. Non lo sono perché sua sorella è sua sorella, vive con lui, ha una relazione costante con lui, insieme hanno costruito la storia della loro (non sempre pacifica come è normale che sia) condivisione.
C’era chi scriveva che i ruoli sono abiti che indossiamo, a seconda della circostanza.
A me piace pensare che i ruoli siano un casco quando si va in moto, la cintura di sicurezza in macchina, la divisa di un carabiniere, di un poliziotto, di un’assistente di volo, una convenzione sociale, un’azione necessaria, salvavita o conciliante, sotto la quale e dentro la quale, però, c’è una persona.
E questo potremmo fare in modo di non dimenticarcelo mai.