Televendite, truffe e vulnerabilità
Mentre scrivo vivo un momento di personale difficoltà e mentirei se non ammettessi che oggi, un pensiero a tema sfortuna (nella variante “tutte a me”), mi balena ogni tanto nella testa. Se qualcuno oggi mi regalasse un talismano, un portafortuna o si proponesse di togliermi il malocchio, probabilmente, se non avessi nulla da perdere, accetterei.
In una società definita e che si autodefinisce positivista e razionalista, è spesso motivo di vergogna ammettere d’aver talvolta costruito (o di costruire spesso in relazione a specifiche circostanze) una narrazione non dimostrabile, d’aver attuato un rituale scaramantico. La stessa vergogna che leggiamo negli occhi delle vittime, quando il limite ci trascina oltre, fino a dove la possibilità di tornare indietro senza aver perso/perdere troppo non esiste più.
Quelli che Wanna Marchi e sua figlia Stefania Nobile definiscono “deficienti ai quali hanno venduto il sale” sono persone che, in un momento di disperazione (e, magari, di profonda solitudine), hanno preferito l’illusione della soluzione alla frustrazione di dover accettare qualcosa su cui non abbiamo controllo né potere. Il bisogno di controllare non ci abbandona mai, è insito nella natura umana, e ci mette, anzi, nella condizione d’attaccarci con le unghie e con i denti anche al meno probabile degli scenari. Quando capiamo di non poter andare oltre, costruiamo narrazioni grazie alle quali ci illudiamo qualcuno (o qualcosa) possa almeno farlo al posto nostro.
Una situazione nella quale chiunque di noi si sarebbe potuto trovare. Oggi, forse, meno rispetto a un tempo. Quando critichiamo il web ricordiamoci che il web ci consente di reperire e verificare informazioni in breve, brevissimo tempo, di esplorare alternative più convenienti, di colmare piccole e grandi solitudini quando il supporto sociale scarseggia. Come tutto ciò che produce vantaggio, presuppone il rischio che il vantaggio si trasformi in svantaggio.
Forse, intanto, dovremmo contestualizzare la vicenda Wanna Marchi & figlia agli anni in cui le truffe avvenivano. Non che oggi non si corra il rischio d’essere truffati, anzi, ma ipotizzo ci siano meno e più circoscritte probabilità, in linea generale, di assecondare l’ascesa di un personaggio come la Marchi. Non concordo con il parallelismo con le/gli influencer perché pubblicità e truffa non sono sinonimi né necessariamente interdipendenti. La pubblicità è uno stimolo, sicuramente studiato ad hoc, al quale fanno seguito una più o meno immediata valutazione del prodotto proposto (e di come è stato proposto) e la scelta di provarlo. La fase successiva, se si è scelto di provare il prodotto, è la valutazione della sua efficacia, che non è detto non sia viziata dalle aspettative o dall’esigenza di vedere i risultati. È un processo che coinvolge però l’acquirente in prima persona, che viene sì spinto all’acquisto, ma non, come abbiamo visto nel documentario, insultato (“Compra lo sioglipancia palla di lardo”) né manipolato sfruttando le sue debolezze. Come si evince dal documentario, era forte la pressione esercitata, soprattutto nel secondo periodo Marchi, per mezzo di un sistema di adescamento e violento coinvolgimento delle vittime, in una spirale verso l’alto, verso, ogni volta, una nuova possibile e sicuramente definitiva soluzione.
Quanto alla protagonista, non è mia consuetudine azzardare diagnosi cliniche di persone che non sono passate dal mio studio, con le quali non ho avuto un rapporto professionale e ritengo sia opportuno guardarsi bene dal farlo.
Quello che però credo sia importante fare è valutare, individualmente, il vissuto che la visione del documentario e l’essere a conoscenza della vicenda attiva dentro di noi. Trovo non sia trascurabile il rischio che i racconti cinematografici delle grandi truffe (ma anche dei grandi crimini) si trasformino in un silente (pubblico o privato) elogio alla personalità di chi, calpestando le debolezze altrui, si fa strada nella società in cui ciò che conta è la performance.
Personalità definite antisociali, delle quali sono tratti caratteristici l’assenza d’empatia nei confronti delle vittime, di vergogna e di senso di colpa sono personalità che rischiano di diventare in qualche modo appetibili in un mondo che si impegna a combattere qualunque forma di imperfezione, di debolezza. La legge del più furbo vale solo finché il più furbo non incontra un altro furbo, ma la furbizia non è una dimensione innata, immutabile.
Il debole che merita di essere truffato dal più furbo è un’affermazione che, al di là della sua dubbia moralità, non considera che ognuno di noi vive momenti di debolezza. Consideriamo momenti di debolezza anche quelli che spingono alla totale e completa soddisfazione del proprio ego, fino alla detenzione.
Riconoscere le proprie debolezze e conoscere i limiti della nostra mente è invece l’unico modo che abbiamo per difenderci, tutelarci, adattarci.
La capacità di ammettere a noi stessi di essere in difficoltà ci protegge dall’affannosa ricerca di qualcosa che ci dimostri il contrario.
La gran parte delle volte, le risorse che cerchiamo altrove le abbiamo dentro di noi anche e soprattutto quando le possibilità sono limitate e la sofferenza è inevitabile. Quello che possiamo fare è imparare a cercarle, trovarle, canalizzarle al meglio.
È sempre utile diffidare da chi propone una soluzione immediata, sicuramente efficace e, soprattutto, a pagamento, alle nostre difficoltà, principalmente per un motivo: in casi rari esistono soluzioni universali e, se esistessero e fossero alla portata di chiunque, il sistema economico ci insegna, non sarebbero a pagamento.
Delle illusioni e altri rimedi
di Tonia Peluso
Quando con Arianna dovevamo decidere un tema per questo numero lei non ha avuto dubbi. «L’hai visto il documentario su Wanna Marchi? Vorrei scrivere di quello». Non lo avevo visto. Ho risposto di sì subito, senza la benché minima intenzione di vederlo. Sto scrivendo di una cosa che non ho visto? No. Sto scrivendo di un qualcosa che più volte si è presentato nella mia vita, come quella di ognuno di noi a mano a mano che si accumulano anni e difficoltà. Non parlerò di Wanna Marchi, né di Stefania Nobile e il mago Do Nascimento, non parlerò delle loro minacce sguaiate urlate dallo schermo che ancora riecheggiano nella mia mente provocandomi lo stesso fastidio di allora. Parlerò di quelle piccole strategie che in alcuni momenti della vita ci troviamo a mettere in atto per poter evadere da situazioni che altrimenti sarebbero asfissianti o, almeno, per riuscire a prendere piccole boccate d’aria. «Tutti abbiamo bisogno di un’illusione» afferma la signora Marchi nel promo della docuserie prodotta da Netflix. Ha ragione. Tutti ne abbiamo bisogno.
L’illusione, a sua volta, per esistere ha bisogno di un substrato su cui fondare le radici: il pensiero magico.
La psicologia e l’antropologia considerano il pensiero magico come la descrizione di attribuzioni illogiche a determinate cause, senza la mediazione di alcuna prova empirica. Il pensiero magico costituisce un tipo di processo mentale in cui le associazioni tra un soggetto e un oggetto non rispondono ad una relazione di causa-effetto come nella logica deduttiva, ma risultano collegati tra loro per somiglianza, simpatia, oppure contiguità in quanto parti di un tutto.
«Tutti abbiamo bisogno di un’illusione». Peccato che le sue illusioni nascondessero molto di più: plagio, minacce, condizionamenti, strumentalizzazioni. «Se non paghi avrai disgrazie, muore tua madre e tu perdi la pensione, succederà qualcosa di male ai tuoi figli, sei una stronza e non ti faccio più vincere. E questo te lo dice Wanna Marchi» ricordo di averle sentito urlare una volta. Te lo dice Wanna Marchi, con la pretesa di metterci la firma a dare credibilità. Muore tua madre, se non paghi. Azioni apparentemente senza alcuna relazione causale che però trovano senso di esistere all’intero di un grande contenitore che scaccia via ogni traccia di razionalità: la disperazione.
Non erano stupidi gli italiani truffati da Marchi e figlia. Non erano ignoranti. Erano disperati.
Ricordo da piccola di aver assistito a un fatto che ho rielaborato dopo anni. Un amico di famiglia aveva da pochi giorni perso il figlio appena più che ventenne. Era seduto al bar con gli amici quando provarono a portargli via l’orologio. Reagì, gli fu fatale. Un colpo di pistola alla testa, nessuna speranza di potersi salvare. Eppure, ricordo quest’uomo, distrutto dal dolore, giurare ai miei di aver incontrato il diavolo nel freddo dell’obitorio. Se gli avesse ceduto l’anima di quel figlio tanto amato lo avrebbe resuscitato, diceva. Lui aveva detto di no, diceva ancora. Non si vende l’anima al diavolo. Lo diceva e ridiceva convinto. Ero piccolissima, troppo piccola per poter rielaborare quelle frasi origliate sfuggendo alla preoccupazione dei miei genitori. Quell’uomo mi sembrava parlasse di cose insensate. Nella mia mente da bambina non c’era posto per concetti così complessi. A dire il vero mi sfuggiva anche il significato di resuscitare non sapendo neppure cosa significasse morte. Oggi però capisco cosa quell’uomo stesse facendo: stava dando un senso a una perdita troppo difficile da accettare, stava fingendo di aver deciso di salvare l’anima del suo ragazzo a costo di perderlo. Stava consegnando il suo amore paterno all’eternità per riuscire ad accettare che la parola papà non sarebbe più uscita dalle labbra livide che gli giacevano davanti. Stava trovando una soluzione nell’illusione di aver fatto la scelta migliore perché alla fine ciò che conta è trovare un appiglio per tirarsi fuori dalla disperazione. È sopravvivenza.
Non riesco a immaginare - per fortuna - un dolore così grande. Credo - per fortuna - di non aver ancora conosciuto la disperazione quella vera. Scrivo per fortuna come fosse un intercalare scaramantico quando in realtà in tutto questo la fortuna non c’entra niente. La fortuna, la sfortuna, il caso, il destino, il karma, sono concetti a cui ci aggrappiamo quando non riusciamo a trovare una spiegazione logica ai fatti che ci accadono.
«Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male» disse quel gran genio di Eduardo De Filippo, racchiudendo in una frase diventata iconica un pensiero di grande complessità.
Qualche giorno fa la zingara che legge i tarocchi a piazza Garibaldi mi ha chiesto se volessi sapere qualcosa sul mio futuro. «No grazie, non credo a queste cose» le ho risposto cercando di restare gentile, anche se ero piuttosto infastidita. «Signurì tenete gli occhi belli però state soffrendo. Ma lunedì prossimo avrete una sorpresa d’amore» ha ribattuto, sperando almeno in qualche moneta. Non ne avevo. Se le avessi avute non gliele avrei date perché non credo a queste cose, come le ho detto e mi sono detta. Eppure oggi, che è lunedì, io a questa sorpresa d’amore un po’ ci spero.
Sta tutto qua. Non è vero, ma ci credo.
Auspichiamo gli spunti proposti, ispirati dall’intreccio tra le nostre vite e gli ambiti nei quali operiamo ogni giorno, possano essere un’occasione di confronto e arricchimento.