Condivido, dunque sono
di Tonia Peluso
Bentornati.
Sono successe un po’ di cose durante questa pausa e Viva ha appena affrontato un trasloco. Vi accogliamo oggi al meglio delle nostre possibilità, con qualche scatolone ancora tra i piedi e i pezzi da montare come librerie Ikea, ma con molte meno competenze tecniche per farlo. Però ci stiamo impegnando.
È stata un’estate calda, in tutti i sensi possibili. Pare sia colpa del cambiamento climatico, anche se per i negazionisti del momento ci stiamo facendo fregare; la colpa è delle scie chimiche e di quelli che buttano il caldo nell’aria perché serve per il rincaro delle utenze. Giuro di aver sentito davvero conversazioni in spiaggia che erano circa così, ma più fantasiose. Che poi, fossero tutte come le discussioni da spiaggia, le polemiche sarebbero anche interessanti da seguire. Se non altro per cogliere il nesso che trasforma in soli cinque minuti una conversazione sul cambiamento climatico in una lite perché il marito ha piazzato dei like su Instagram a una, giustificandosi poi di star parlando con la dottoressa di famiglia. Su Instagram, di domenica, in spiaggia.
A proposito di Instagram, anche quest’anno la discussione intorno all’utilizzo più o meno etico di questo social ha tenuto banco. Come se esistesse una soglia di legittimazione a quanto sia opportuno dare in pasto i fatti propri a un pubblico di semisconosciuti. Le riflessioni più interessanti hanno riguardato il pericolo del pubblicare costantemente contenuti che mettono al centro della narrazione bambini molto piccoli e certamente non in grado di decidere in autonomia circa l’utilizzo della propria immagine, da un lato, e la beffarda ostentazione, che ha portato un gruppo di influencer (vestiti male) a prendere due jet privati solo per andare a fare aperitivo su un ghiacciaio in Svizzera, dall’altro. La paura - piuttosto fondata, visti gli ultimi avvenimenti – per il cambiamento climatico unisce gli utenti social e il paese reale.
Il primo livello di critica ha riguardato, ovviamente, la scelta poco eco friendly di usare ben due jet privati per un’attività ludica ed evitabile in un momento ambientale così delicato. Così come è evitabile alla base fare aperitivo su un ghiacciaio che è uno dei luoghi più a rischio proprio a causa delle emissioni di CO2. Quello che però salta di più all’occhio – e fa saltare i nervi - è l’ostentazione di presunta superiorità che porta delle persone a fregarsene totalmente delle riflessioni precedenti, a cui facilmente sarebbero potuti arrivare, in nome di un’immunità followeriale che li protegge dalla pubblica gogna o comunque pende sulle loro teste solo per poco.
Io uso molto i social. La loro demonizzazione come strumento in maniera generica mi farebbe calzare scarpe di ipocrisia e superficialità. Eppure, perché uso molto i social, spesso mi ci interrogo a riguardo.
Dove stiamo andando?
Condividere vuol dire spartire insieme con altri o anche avere in comune con altri. Si condividono emozioni, pareri, riflessioni, la pizza a metà che così ne assaggi due gusti. Si condividono punti di vista, esperienze, tratti somatici e perfino un solo bagno in dodici in vacanza. Condividere è mettere insieme, confrontarsi, scoprire le somiglianze e tollerare le diversità. Anche sui social condividere vuol dire dividere informazioni ed esperienze, tanto che in alcuni momenti la Rete è sembrata promuovere la diffusione di una nuova cultura del dono e dello scambio reciproco. Basti pensare al file sharing, al free software, ai blog e ai social network nati appunto con lo scopo di avvicinare le persone e condividere con loro sensazioni e ricordi. Eppure, condividere ha assunto via via un significato diverso fino a snaturarsi del tutto: non più vicinanza, ma separazione e barriera.
Né il web né i social hanno ancora – per fortuna - sostituito il mondo reale, perché non sono stati in grado di sostituire la comunità con le community. Così tutto sta rischiando di ridursi a un esercizio di stile fine a sé stesso. Condivido, dunque sono. E, con molta onestà, neanche mi interessa sapere chi tu sia fino in fondo, mi basta fermarmi all’apparente felicità che hai deciso di mostrarmi e che a breve cercherò di replicare, in modo da mostrarti che posso essere felice come te, se non di più, figo come te, se non di più. Questo pare essere il principio che guida l’identità virtuale di molti.
Un bellissimo proverbio napoletano dice «Se po’ campá senza sapé pecché, ma non se po’ campá senza sapé pecchì». Tramutato in ottica social suona più o meno così: si può condividere senza sapere perché, ma non si può condividere senza sapere per chi. Tutti pubblichiamo dei contenuti avendo in mente un segmento di popolazione a cui vorremmo arrivassero. Chi questo lo fa di lavoro parla a riguardo di target. Per noi comuni mortali di solito si tratta di una o più persone a cui vorremmo far arrivare dei messaggi. Ti penso. Non ti penso più. Guardami come fingo di divertirmi mentre fingo di ignorarti pubblicando stories su Instagram pensate ad hoc per fingere di non pensarti. Giusto per fare un esempio in cui ci si può facilmente ritrovare alla fine delle vacanze, soprattutto se si alternano nell’animo le responsabilità di un adulto e i tormenti dell’adolescenza. Persone e professioniste, ha ben pensato di scrivere Arianna nella nuova presentazione di Viva, questo è il punto.
Ma tornando a noi, pubblichiamo dei contenuti volendo trasmettere dei messaggi a un target o un gruppo di persone specifiche. Anche quando l’operazione non ha fini commerciali stiamo comunque cercando di vendergli qualcosa (un ricordo, un’emozione, una riflessione) in cambio di una reazione in grado di soddisfarci: compagnia, approvazione, sostegno o semplicemente un po’ di sana invidia. Condividere non è più un atto disinteressato, si trasforma nell’incipit di un cerimoniale di scambio che ha perso l’immediatezza di cui era stato investito. Condividere è un atto provocatorio, inteso nel senso più avalutativo possibile: serve a provocare una reazione. Preferibilmente non quella dei +100 nelle stories di Instagram perché veramente siamo pieni Gianfranco (qui sono persona che fa citazioni altissime). Condividere è un comportamento razionale volto a massimizzare l’utilità della nostra identità social. Condividere è una scelta che si dispiega nella possibilità di differenziare i contenuti con funzioni apposite: gli amici più stretti su Instagram, i cerchi su Twitter, la lista personalizzata nelle storie di Whatsapp. Anche la scelta del social su cui condividere un determinato contenuto è già di per sé strategica. Io, per esempio, ho iniziato da poco - e smetterò in tempi brevi spero - a pubblicare storie su Whatsapp. «Questo a cui le vuoi far vedere non ha Instagram» mi ha detto perentoria Loretta il primo giorno di mare. Chi mi conosce ha capito subito. C’è razionalità anche in questo comportamento che avrei definito totalmente fuori dalla grazia di Dio fino a qualche mese fa.
Condividere è un’azione pensata per uno scopo. Non ne siamo esenti nessuno. Chi crede di esserlo è in realtà ancor meno in grado di riconoscerlo.
Spero che abbiate trascorso una bella estate o che almeno abbiate la possibilità di recuperare nei mesi a venire. Io ho trascorso una bella estate e un brutto rientro. Ma credo nel fatto che sarà una bella vita.
In questo pezzo è tornata a più riprese la persona, in mezzo agli spunti da professionista.
Mi siete mancati molto.
È bello scrivervi ancora.
Onlife
La vita online è una vita relazionale a tutti gli effetti; non è immediato l’adeguamento di costrutti coi quali abbiamo spiegato l’umano nell’interazione con il suo ambiente al caso dell’interazione con l’ambiente digitale, virtuale, ma è qualcosa di cui conviene occuparsi. L’oggetto di studio della psicologia è l’umano, in relazione col contesto di riferimento, con quello che abbiamo sempre definito ambiente fisico o realtà esterna. Oggi, la psicologia non può trascurare la vita che l’individuo conduce online, in un ambiente sociale che sicuramente non è l’ambiente reale, ma che, allo stesso modo, contribuisce, sotto molti punti di vista, al continuo processo di costruzione del nostro senso d’identità.
Così come accade per questioni etiche relative, ad esempio, all’esposizione dei bambini sui social, anche per quel che riguarda il modo in cui ognuno di noi utilizza lo strumento è opportuno assumere un atteggiamento critico e analitico.
Risale al 1890 la prima definizione del Sé, composto da un Io consapevole e da un Me inteso come il Sé conosciuto dall’Io, cioè come ognuno di noi “si vede” in relazione a tre aspetti principali: materiale (percezione del nostro corpo), sociale (come ci percepiamo quando viviamo le relazioni e i vari contesti sociali), spirituale (come ci percepiamo presenti a noi stessi). (W. James, 1890).
C. H. Cooley (1902) descrive il Sé come un’esperienza legata all’autoconsapevolezza acquisita grazie alle esperienze relazionali e sociali, mediante rispecchiamento: definiamo noi stessi anche a partire dal modo in cui ipotizziamo di apparire agli occhi degli altri.
Diverse altre definizioni del Sé sono state proposte, alcune più specifiche, altre più flessibili, ma quello che interessa ai fini del discorso è che definiamo noi stessi in base a quello che esperiamo e che percepiamo, anche e soprattutto quando siamo in relazione.
Ognuno di noi, oggi, ha un’identità digitale, anch’essa, si ipotizza, in continua evoluzione. Se disponiamo già di molteplici immagini di noi stessi, l’identità in rete ci consente di strutturare ancora più immagini, per via della possibilità di esprimere noi stessi in diversi contesti, ma attraverso un unico canale. Per rendere l’idea: il collega che ci segue sui social e col quale non ci si vede fuori dall’ufficio, se prima costruiva un’idea della nostra persona mentre esercitavamo un ruolo specifico, oggi, se ci segue sui social, può vederci all’opera come fidanzati, genitori, figli, fan al concerto del nostro cantante preferito. I gusti, le preferenze e le inclinazioni altrui che un tempo venivano indagati nel processo di conoscenza, oggi scorrono davanti ai nostri occhi, senza che ci si debba necessariamente impegnare nell’interazione, nella conoscenza.
Non deve sorprendere che nel continuo chatting [...] il sè dei partecipanti sia spesso in gioco, sotto forma di dichiarazioni sui propri pensieri ("a cosa stai pensando?" di Facebook), o di rapide cronache di vita (le microdichiarazioni di Twitter piuttosto che alcuni video autoprodotti su YouTube, o in quelle narrazioni concentrate che sono le pose fotografiche (le foto di Instagram), o nei ragionamenti più o meno autobiografici che colorano post e commenti sui blog".
(F. Colombo, 2013)
L’identità digitale ci mette nella condizione di costruire una nuova narrazione autobiografica attraverso la quale, in molti casi, cerchiamo di soddisfare il bisogno di riconoscimento.
Secondo Colombo, offlife come onlife, perseguiamo l’intento di essere riconosciuti. In tal senso, la possibilità di interagire con più persone, in diversi modi (chatting, like, apprezzamenti vari), rappresenterebbe un vantaggio.
Fino a dove siamo disposti a spingerci però per soddisfare questo bisogno?
In un articolo uscito per VIVA lo scorso anno, scrivevo di confini personali come di quella delimitata zona immaginaria entro la quale ci autodeterminiamo in libertà, decidendo se, quando e come ospitare chi vorrebbe entrare in relazione con noi, a ogni livello di relazione. Porre confini definiti, ma, al contempo, flessibili, ci consente di essere liberi, di scongiurare relazioni invischianti e l’eventualità di allontanare l’Altro, con fare aggressivo. Libertà e tutela del proprio Sé che, come specificato sopra, si nutre di ciò che ci viene rimandato, che viene riconosciuto, apprezzato.
Come e quanto siamo in grado di definire i nostri confini quando siamo connessi? Scegliere cosa pubblicare, chi seguire, quale tipo di narrazione utilizzare, è sufficiente? Neanche seduti al tavolino di un bar possiamo avere la certezza di ciò che chi abbiamo davanti penserà di noi, ma l’interazione è costante e si serve anche del linguaggio non verbale. Quando qualcuno col quale interagiamo in uno spazio fisico oltrepassa il limite da noi posto, tenuto conto delle sensibilità personali, ce ne accorgiamo e ci comportiamo di conseguenza.
Mi è capitato di leggere di amiche, influencer di professione, scosse da messaggi con i quali alcuni followers estimatori/estimatrici, si lasciavano andare a dichiarazioni d’affetto che includevano, più o meno esplicitamente, un conferimento di responsabilità individuali, percepite, in molti casi, come una violazione del proprio confine. Cosa mi stanno rimandando? Questo loro comportamento parla di loro o di me, di quello che ho dato l’idea di poter essere per loro? E, se l’avessi fatto senza accorgermene, come farò ad aggiustare il tiro?
Di recente abbiamo visto la ripresa di una videocamera di sicurezza che raccontava un momento intimo madre/figlio. Una scelta, quella di C.F., insindacabile in quanto tale, ma come possiamo non domandarci cosa spinga a farlo, quando questo genere di autorivelazioni ci sembrano stonare?
Il rischio è che ciò che stona oggi domani possa non stonare più e lo abbiamo già visto, in diversi casi. Abbiamo sdoganato ciò che non avremmo mai immaginato di sdoganare, sempre in funzione di quel bisogno di cui sopra, ma la domanda con la quale vorrei concludere questo pezzo è: il muro alla fine del mare, che dà la possibilità a Truman Burbank di varcare la soglia del mondo costruito per lui e da lui fino a quel momento vissuto, esiste? Se siamo sia protagonisti che registi del nostro personale Truman Show, riusciremo a mantenere un buon livello di consapevolezza su ciò che potrebbe rappresentare, per noi, un rischio?
Voglio pensare di sì.
Come? Delineando un confine personale, oscurando la fotocamera per qualche minuto e intraprendendo la navigazione verso una sempre maggiore libertà. Si è più soli in mondo di comparse, che in un mondo di persone curiose di sapere, davvero, chi siamo.
(Il riferimento è al film The Truman Show, del 1998, diretto da Peter Weir. Lo trovate su Netflix.)
di Arianna Capulli
Auspichiamo gli spunti proposti, ispirati dall’intreccio tra le nostre vite e gli ambiti nei quali operiamo ogni giorno, possano essere un’occasione di confronto e arricchimento.